L’industria non riesce a trovare una propria strada vincente nell’economia siciliana. Nel 2020, secondo l’ultimo recente rilevamento Istat, le principali città siciliane hanno segnato un calo della produzione di valore aggiunto piuttosto importante: Catania vede una diminuzione del 14,9%, passando, rispetto al 2019, dal 17esimo al 19esimo posto, mentre Palermo scende del -12,5%. La flessione del valore aggiunto rilevata per il 2020 è del -10,5% nel complesso dell’industria e dei servizi, percentuale che ha riguardato tutto il Mezzogiorno, superato soltanto dalle regioni del Centro Italia, dove la diminuzione è pari a -14,4%; numeri di poco migliori ma comunque negativi nel Nord-est (-9,5%) e nel Nord-ovest (-8,9%).
La Sicilia ultima ruota del carro dell’industria italiana
Con questi numeri la regione si pone in ultima posizione rispetto a tutte le altre della penisola, e il confronto si fa impietoso se si va a vedere la Lombardia, in prima posizione, che nonostante l’avvento della pandemia ha migliorato i propri risultati, con valori, in termini di fatturato e valore aggiunto, del 28,6% (+0,9 rispetto al 2019) e del 24,6% (+1,9 rispetto al 2009) dei totali regionali, seguita dal Lazio, dove il fatturato si attesta 25,0% (+2,0%) e il valore aggiunto al 20,8% (-0,1%). Contenuti sono invece i valori nel Mezzogiorno. Le quote di fatturato e valore aggiunto prodotto sul totale dell’economia regionale sono basse in Molise (3,8% e 6,9%), Basilicata (5,5% e 9,0%) e Campania (7,4% e 8,1%), rimanendo comunque ben più su rispetto alla Sicilia. Unica eccezione, la Basilicata, dove è nota la presenza di gruppi multinazionali italiani, il valore aggiunto prodotto dalle unità locali di imprese multinazionali italiane nel settore manifatturiero è pari al 42,0% del totale regionale e il fatturato raggiunge il 68,1%.
Le multinazionali non sono interessate ad investire in territorio siciliano
In Sicilia, poi, in particolar modo, crollano le presenze e la quota di valore aggiunto che vengono dalle multinazionali, che siano estere o nazionali. Nel 2020 erano appena 22.423 gli addetti appartenenti ai gruppi multinazionali esteri, che rappresentano soltanto l’1,56% del totale nazionale, mentre gli addetti ai gruppi multinazionali italiani erano 39.905, il 2,3% del totale nazionale. Osservando la nazionalità degli investitori gli Stati Uniti sono il paese con il più elevato numero di addetti a controllo estero in Italia, seguono Francia e Germania. Tale graduatoria è comune a numerose regioni con eccezioni significative, spesso connotate dalla contiguità geografica. Per quanto riguarda, invece, le unità locali, la distribuzione territoriale del valore aggiunto generato dall’industria resta comunque sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente.
Il Nord Italia continua ad essere il polmone dell’industria italiana
Si conferma al primo posto il Nord-ovest (con un contributo pari al 37,6%), seguito da Nord-est (25,8%), Centro (19,9%) e Mezzogiorno (16,8%). Nel Nord oltre il 90% delle unità locali insiste in comuni altamente produttivi (il 92,6% nel Nord-ovest e il 93,2% nel Nord-est). Nel Centro la percentuale è dell’81,2% mentre nel Mezzogiorno si riduce al 41,6%. Le unità locali del Mezzogiorno attive in comuni ad alta produttività impiegano inoltre poco meno della metà degli addetti di questa ripartizione (49,9%) e il 60,5% del valore aggiunto. A livello regionale, le unità locali più colpite dalla crisi sono quelle che operano in Toscana e in Liguria, tra le quali la riduzione del valore aggiunto è rispettivamente del 18,3% e del 16,3%. Seguono Sardegna (-14,5%), Valle d’Aosta-Vallée d'Aoste (-14,3%) e Lazio (-13,3%). Sul fronte opposto, le unità locali che reggono meglio all’impatto della crisi sono situate in Lombardia (-7,5% la flessione del valore aggiunto), Emilia-Romagna (-7,6%), Molise (-7,8%), Puglia (-7,9%) e Basilicata (-8,4%).
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