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Marco Zupi (Cespi): “Difficile essere ottimisti su obiettivo 1,5 gradi”

Marco Zupi (Cespi): “Difficile essere ottimisti su obiettivo 1,5 gradi”

Marco Zupi (Cespi): “Difficile essere ottimisti su obiettivo 1,5 gradi”

ROMA - “È difficile essere ottimisti sull’obiettivo 1,5 gradi; le possibilità diminuiscono col passare del tempo, le crisi si moltiplicano e intrecciano, mentre non si mobilitano risorse finanziarie adeguate per ragioni evidentemente politiche”. Queste le parole di Marco Zupi, direttore scientifico del Cespi (Centro studi di politica internazionale), sul limite dell’innalzamento della temperatura, fissato a 1,5 gradi Celsius, a dicembre 2015 con l’Accordo di Parigi. Alla COP27 sono stati due i risultati raggiunti con gli accordi siglati a conclusione dell’evento: l’istituzione del fondo per le perdite e i danni richiesto dai Paesi vulnerabili e la riaffermazione dell’impegno generico a limitare l’aumento della temperatura globale entro il 2030.

Per quanto riguarda il secondo, dobbiamo considerare ormai tramontato l’obiettivo di 1,5 gradi?

“Il multilateralismo e il coordinamento internazionale in genere è in crisi da tempo. Nel 2024 saranno decisive le elezioni europee perché l’Ue è stata finora uno dei principali sostenitori del multilateralismo, a cominciare dall’ambito climatico, ma anche le elezioni presidenziali statunitensi, per il peso specifico del Paese; molto più dell’esito delle elezioni in Turchia ora. Paradossalmente, gli accordi sul clima, per quanto insufficienti, parziali e disattesi (anzitutto sul fronte degli impegni finanziari e dell’abbandono del fossile) sono un esempio di maggiore successo rispetto ad altri negoziati: si pensi, per restare a temi ambientali, agli impegni legati alla convenzione per la tutela della biodiversità. Un primo banco di prova sarà proprio il fondo per le perdite e danni: come saranno definite e misurate le perdite e i danni e come differenziarli dalle esigenze di adattamento e sviluppo e come allocare e distribuire i fondi messi a disposizione (da chi, in che proporzione?) in modo equo e trasparente?”.

La COP28 si terrà a fine 2023 negli Emirati Arabi Uniti, Paese fortemente dipendente dal petrolio e dal gas naturale per l’intera strategia di sviluppo economico. Ciò non induce al facile ottimismo sul fronte degli impegni per una rapida decarbonizzazione. Tra l’altro, la delegazione del governo degli Emirati alla COP27 di Sharm era la più numerosa in assoluto, con oltre mille delegati. Questi fattori incideranno negativamente?

“È vero, non bisogna sottovalutare l’influenza esercitata dal Paese ospitante. Ricordiamo che il Brasile di Bolsonaro decise addirittura di rinunciare a ospitarlo. Non vorrei, però, che diventasse un alibi perché gli altri Paesi possano sottrarsi alle proprie responsabilità, indicando nel Paese ospitante il problema. Nuovamente, bisognerebbe mettere in campo una volontà politica più ferrea e meno altalenante, non disposta a cedere lo spazio ad altre priorità (l’Europa e l’arretramento nella lotta ai combustibili fossili a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina docet)”.

Nella prossima COP uno dei nodi principali da affrontare resta quello sul piano finanziario. La promessa fatta alla conferenza di Copenaghen nel 2009 dai Paesi con economie ad alto reddito di destinare per la mitigazione e l’adattamento dei PVS vulnerabili 100 miliardi di dollari all’anno, aggiuntivi rispetto ad altri impegni della cooperazione internazionale, entro il 2020 non è stata pienamente soddisfatta. Cosa è stato fatto negli ultimi due anni e quanto ha inciso la pandemia?

“Sì, il tema finanziario è cartina di tornasole della volontà politica. C’è un problema quantitativo di ammontare insufficiente delle risorse messe a disposizione, ma anche qualitativo (i privati sono coinvolti poco e soprattutto concedono crediti, più onerosi per i Paesi beneficiari). E c’è un problema di coerenza del quadro complessivo: a livello internazionale c’è, per esempio, un impegno che nelle Nazioni Unite fu promosso 60 anni fa, di destinare lo 0,7% del reddito nazionale lordo, alla cooperazione allo sviluppo, ampiamente disatteso, soprattutto dagli Stati Uniti e da Paesi come l’Italia. La coperta sembra corta e c’è il rischio che, per trovare le risorse della finanza climatica, si sottraggano quelle alla cooperazione allo sviluppo che pure dovrebbe aumentarle significativamente (solo gli Stati Uniti dovrebbero mettere in campo 120 miliardi di dollari l’anno in più di quanto stanno dando oggi). Non bisognerebbe arretrare sull’impegno di mobilitare risorse ‘fresche e aggiuntive’ rispetto ad altre finalità e non ci sono ragioni di contesto che tengono. Evidentemente, il problema è soprattutto la carenza di impegno politico”.

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