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Forum con il vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali Monsignor Viganò

Forum con il vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali Monsignor Viganò

Forum con il vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali Monsignor Viganò

Intervistato dal vice direttore, Raffaella Tregua, il vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Monsignor Dario Edoardo Viganò, risponde alle domande del QdS.

Partiamo dal suo ultimo libro, “L’illusione di un mondo interconnesso”. Monsignor Viganò, perché il sostantivo “illusione”?

“Molto spesso si confonde il fatto di essere connessi con il concetto di ‘fare comunità’. Non è esattamente così. Innanzitutto, le community virtuali tendono a unire chi la pensa allo stesso modo; la comunità, invece, è un insieme di differenze. Detto questo, non intendo assolutamente demonizzare la rete o i social che, per esempio, consentono di ritrovare magari un compagno di scuola e tenersi in contatto con lui a distanza. Però non vanno confuse le cose: le relazioni umane si alimentano con concretezza, vicinanza e si basano sulla fisicità. Io parlo di ‘illusione’ perché impostare la vita continuamente in connessione fa perdere anche la capacità di ‘verbalizzare’ sentimenti e pensieri. E questo, a mio avviso, è un problema. Prima di tutto educativo, che si collega, però, con una questione di responsabilità e di cultura: soprattutto di noi adulti verso i più giovani”.

Il riferimento, immagino, sia al mondo della scuola…

“Esattamente. Il mondo dell’istruzione, oggi, vede uno scollamento tra corpo docente (che proviene da una cultura più ‘tipografica’, ipotattica, basata su un discorso logico e argomentativo) e studenti, che sono l’esatto contrario. Quindi è difficile che sia una scuola coinvolgente quando, non per colpe di qualcuno ma per una questione anche solo anagrafica, ci sono due realtà che non condividono nulla della cultura gli uni degli altri. È fondamentale, dunque, avere un corpo docente molto più smart, competente, giovane e magari pagato un po’ meglio. La scuola va vissuta non come passaggio di conoscenze ma come compartecipazione di un’esperienza e trasmissione di valori. Senza perdere di vista le radici, la storia e la conoscenza. Noi avevamo una scuola che era un modello perfetto, che impartiva nozioni di cultura generale. Oggi siamo passati a un modello un po’ troppo microspecialistico”.

Lei ha anche curato la prefazione all’ultimo libro di Papa Francesco, “La Gioia”, intesa sì in senso cristiano, ma ponendo l’accento sull’importanza di essere felici e di contagiare il mondo…

“Il Papa dice una cosa semplicissima: un cristiano la gioia deve avercela per definizione. Anche se non significa che un non cristiano non possa avercela. Si chiamerà, però, ottimismo. La gioia cristiana non dimentica le fatiche. Il libro, a un certo punto, cita l’esperienza dei discepoli di Emmaus, due che avevano investito affettivamente nel maestro di Nazareth il quale, però, a un certo punto muore. Così riprendono la propria strada, con la delusione nel cuore. Finché, a un certo punto, ma tardivamente, si accorgono che a camminare a fianco a loro c’è proprio Gesù. E cosa dicono? ‘Non ci ardeva forse il cuore di gioia quando parlava con noi?’. Ecco, la gioia cristiana è la capacità di rileggere la storia partendo dalla fine, che è l’esperienza della figliolanza con Dio, ricevuta attraverso il sacramento del battesimo. Un Dio che non dobbiamo ‘cercare’, perché già dentro di noi, ma testimoniare. Con gioia, appunto”.

Lei è intervenuto diverse volte sul tema dell’ambiente. L’Agenda 2030 è il programma che l’Onu ha sottoscritto otto anni fa, stilando un piano affinché entro, appunto, il 2030 si possano coniugare perfettamente sviluppo sostenibile e crescita economica. Lei, però, ha spesso aggiunto che al centro va messo l’Uomo e che la Finanza deve essere uno strumento utile per tutti e non per pochi. Teme che qualcuno in questa fase di transizione possa essere lasciato indietro?

“Le rispondo prendendo spunto dall’Eucarestia, dove ci sono il pane e il vino ‘frutto della terra e del lavoro dell’uomo’. Il lavoro, che a volte si perde e si fa fatica a ritrovare; il sudore; la cura della terra; la preoccupazione per la propria famiglia. Tutto questo è racchiuso in quel Pane e in quel Vino che, appunto, nell’Eucarestia diventano il Corpo di Cristo. Un cristiano non può non prendersi cura del Creato e dell’ambiente, perché è anche lì che si manifesta la presenza di Dio. Questa fase di transizione ecologica offre delle enormi opportunità. Su cui, però, è necessario vigilare. Naturalmente è giusto che le economie mondiali crescano e si sviluppino, ma devono farlo tutte assieme, all’unisono. Io ritengo che se tutti seguissimo delle piccole regole basilari, che a mio avviso già esistono, pensiamo per esempio in Italia alla nostra meravigliosa Costituzione, regole di attenzione verso il prossimo, magari nell’immediato guadagneremmo un po’ meno, che però potremmo recuperare e superare abbondantemente sulla lunga distanza. Penso che dobbiamo avere molto chiara la distinzione tra una operazione sostenibile e una profittevole. Tenere i conti in ordine non significa essere soggetti alla tirannia della crescita continua del Pil”.

La Chiesa e un nuovo modo di comunicare

All’interno del Vaticano lei si è occupato anche del processo di riforma della comunicazione, di cui è stato anche prefetto. Un percorso che ha portato la Chiesa a utilizzare forme fino a poco tempo fa inimmaginabili. A che punto è questo processo?

“Un’istituzione, quando comunica, deve essere coerente. Da qui, oltre che dalla necessità di razionalizzare le risorse economiche, il Papa ha deciso di accorpare in un solo Dicastero i nove enti che si occupavano di comunicazione. Il multilinguismo, che è un tratto distintivo della comunicazione della Santa Sede, non riusciva a creare massa critica perché ogni portale in lingua era una realtà autonoma rispetto alle altre. Inoltre, avevamo profili professionali in veloce trasformazione: penso ai giornalisti della carta stampata o a quelli dei siti. Inoltre, assistiamo a una crisi generalizzata dei media generalisti, della carta stampata, dell’editoria in genere e quella cattolica in specie. Era, dunque, necessario ammodernare tutto l’apparato: un giornalista dei nostri giorni non deve sapere solo scrivere ‘di penna’, ma essere in grado anche di realizzare un podcast, comunicare sui social o girare un video”.

Com’è strutturata la comunicazione, oggi, in Vaticano?

“In questo momento ci sono due canali. Uno è quello istituzionale del Dicastero. Poi c’è quello del Pontefice che risponde a sensibilità personali. Papa Francesco ha una modalità di comunicazione molto diretta, creativa e molto efficace, toccando tematiche, come diceva lei poc’anzi, fino a pochi anni fa impensabili e di difficile verbalizzazione. Un Papa al passo con i tempi e che probabilmente anche grazie alla sua provenienza territoriale, il Sud America, ha un modo di diffondere messaggi che rende tutto comprensibile. Pensando al recente passato, anche Papa Wojtyla lo era. Un grande pastore, ma di generazioni fa, quindi di un’epoca in cui certi argomenti e un certo lessico non venivano toccati o usati nemmeno dalla cultura laica”.

Il ruolo della Chiesa per la pace in Ucraina

Un’ultima questione riguarda la guerra, in generale (circa quaranta zone del mondo sono interessate da conflitti attivi) e in Ucraina in particolare. Papa Francesco, sul punto, ha speso molte parole, invitando più volte russi e ucraini a trattare, dichiarandosi disposto a incontrare, quale uomo di pace (e ha rimarcato che tutti noi dovremmo esserlo, qualunque funzione rivestiamo nella società), sia Putin che Zelensky. A suo avviso, quali sono ruolo e responsabilità che ha, in questo contesto, il capo di una comunità religiosa importante come quella cattolica?

“La responsabilità è direttamente proporzionale all’autorevolezza che gli viene riconosciuta. E, senza dubbio, il nostro Papa è un’istituzione molto autorevole. Io credo che prima di tutto si debba comprendere e far comprendere che la Fede è più importante della Nazione: è assurdo che battezzati ortodossi russi e battezzati ortodossi ucraini o anche battezzati con rito greco bizantino si uccidano in nome della Nazione. Sono tutti figli di Dio che si ammazzano fra di loro. Il secondo aspetto è che bisogna sensibilizzare sul fatto che le lacrime di una madre russa sono uguali a quelle di una madre ucraina: è lo stesso dolore di due donne a cui hanno ucciso il figlio. Penso che se si partisse dalla consapevolezza che le ferite sono comuni e non hanno appartenenza nazionalistica, allora sia possibile cominciare un cammino di riconciliazione. In caso contrario, la questione resta solo politico-economica, la miccia che accende tutti i conflitti”.

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