fbpx

No alla carne coltivata in laboratorio, rischiamo di restare indietro

No alla carne coltivata in laboratorio, rischiamo di restare indietro

No alla carne coltivata in laboratorio, rischiamo di restare indietro

Il disegno di legge presentato lo scorso 28 marzo dal Governo che vieta produzione e commercializzazione della carne colturata in Italia, ha suscitato numerosissime reazioni, non solo nazionali. Molti siti e media esteri si sono occupati della vicenda rilevando come, in nome di una presunta “sovranità alimentare”, l’Italia corra in realtà un unico, serio rischio, ossia quello di rimanere indietro rispetto al resto del mondo, diventando terreno di conquista per le aziende di altri Paesi e mortificando, fino a farli scomparire, i centri di ricerca pubblici e privati che stanno puntando sulle fonti di proteine alternative e sui cibi innovativi.

Il disegno di legge riguarda una materia che in realtà non esiste perché né l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, né tantomeno l’omologa agenzia britannica hanno ricevuto per ora alcun dossier con la richiesta di approvazione di prodotti basati sulla carne colturata. L’approccio italiano, di fatto, è ritenuto preoccupante da parte di chi cerca soluzioni per la produzione alternativa di cibo, ma, in realtà, quasi tutti ritengono che si tratti di decisioni velleitarie che non potranno avere alcuna influenza sugli altri Paesi.

Il segnale che arriva da altri paesi europei è diverso. Il governo olandese, nel 2022, ha stanziato 60 milioni di euro per lo sviluppo del settore mentre quello spagnolo, già nel 2021, ha stanziato 5,2 milioni di euro e quello britannico circa 16 milioni di sterline. Sembra che l’Europa vada in direzione opposta rispetto all’Italia e questo di certo non potrà cambiare. Questa scelta potrebbe annullare il potenziale economico di questo campo nascente in Italia, frenando così non solo il progresso scientifico ma anche gli sforzi per la mitigazione del cambiamento climatico e inoltre limiterebbe la libertà di scelta dei consumatori italiani. Per ora, il consumo è stato approvato soltanto da Singapore, Israele e dagli Usa. Seguire quest’esempio permetterebbe ai consumatori europei di avere certezza della sicurezza di queste carni, anche grazie ai protocolli molto severi dell’Unione europea. In attesa di vedere se e in che misura la carne in vitro, rientrerà davvero tra i cibi del futuro non è nostro obiettivo schiararsi né tra i pro tantomeno tra i contro, ma abbiamo voluto capire meglio come si ottiene la carne colturata, quali sono i suoi possibili benefici, quali le pecche e gli elementi di rapporto con i consumatori.

Il primo hamburger di carne colturata, mostrato in una conferenza stampa a Londra nel 2013, d’indigesto aveva sicuramente il prezzo perché produrlo era costato circa 330.000 sterline, l’equivalente di 375.000 euro. Appare evidente che dieci anni dopo i costi si siano ridimensionati ma siamo ancora lontani da un costo equivalente a quello di un hamburger di carne ricavato dalla macellazione di un animale cresciuto all’interno di un allevamento intensivo. In un'analisi presentata nel 2021, il “Good Food Institute” (Gfi), l'ente no-profit rappresentante l'industria delle proteine alternative, ha valutato che, superando una serie di ostacoli tecnici ed economici, il prezzo di produzione della carne colturata dagli, allora, 10.000 dollari per circa mezzo chilo di prodotto potrebbe arrivare ad una cifra intorno ai 2,50 dollari nel 2030.

Questi cibi devono passare per la “Novel Food Regulation” europea con una procedura di richiesta di autorizzazione di alimenti "nuovi" rispetto a quelli tradizionalmente intesi, vista la relativa novità della tecnologia. Questo perché deve essere dimostrato che si tratti di “cibo sicuro” tanto quanto le altre opzioni attualmente disponibili per i consumatori europei e già oggi si ritiene che il loro livello di sicurezza alimentare sia equivalente a quello della carne ottenuta in modo convenzionale, ossia con la macellazione.

Un documento emesso dall’”Agenzia europea per l'ambiente”, aggiornato nello scorso mese di febbraio, afferma che la tecnologia di coltivazione in vitro potrebbe “offrire modi per controllare la composizione della carne e renderla più salutare. Il contenuto di grasso potrebbe essere fissato ai livelli raccomandati e i grassi insalubri potrebbero essere sostituiti con i più salutari omega-3. Si potrebbero poi includere ingredienti aggiuntivi come le vitamine” e che la carne colturata “non sarebbe così dipendente dall'uso di antibiotici, perché crescerebbe in condizioni sterili a partire da animali sani. Adottare più rigide procedure di controllo durante il processo di produzione potrebbe inoltre favorire una diminuzione delle malattie zoonotiche legate alla produzione di cibo”.

I benefici ambientali generati della produzione di carne coltivata dipendono anche da come saranno utilizzati i terreni da pascolo liberati dall’allevamento di animali da carne e che un loro uso alternativo potrebbe impattare positivamente sull’ambiente, con la conversione in foreste o vegetazione nativa di quei territori che sono stimati circa il 20% delle terre emerse cui si sommano quelli necessari per la produzione di mangimi, che sono circa il 40%. E in Italia? La ricerca è in grande evoluzioni ma è certo che i cittadini italiani dovrebbero essere lasciati liberi di decidere cosa mangiare, anziché essere obbligati a seguire le decisioni del governo.

Intervista al prof. Luciano Conti del Dipartimento di Biologia cellulare dell’Università di Trento

“Prodotto generato in ambienti sterili senza contaminazioni. È molto sicuro”

Carne colturata. Come sempre, la scienza ci viene in aiuto. Il QdS ha parlato con il professor Luciano Conti del “Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata – CIBIO” dell’Università di Trento che, assieme al collega professor Biressi, si occupa di sperimentazione in questo campo specifico.

Professor Conti, da quanto tempo l’Università di Trento si occupa della coltivazione di carne?

“Io e il mio collega Stefano Biressi abbiamo iniziato a occuparci in modo attivo di questo argomento, sviluppando un progetto, da circa due anni e mezzo. C’era stata, ovviamente, una fase preparatoria per cui, nel complesso, ce ne occupiamo da circa quattro anni”.

Si parla di scarsità di fondi destinati alla ricerca in Italia. Come siete riusciti a finanziare la vostra ricerca?

“La ricerca in ambito bio-tecnologico ha costi elevati, soprattutto quando si lavora con cellule staminali, la base della carne colturata. Abbiamo iniziato a occuparcene sperimentalmente grazie ad un investimento di circa 130.000 euro che una startup che si occupa di carne coltivata ci ha messo a disposizione. Si è trattato di un virtuoso esempio di collaborazione tra privato e pubblico”.

Dal punto di vista tecnico, come avviene la coltivazione della carne?

“Il componente base principale della carne colturata sono le cellule. Si tratta di cellule che, durante lo sviluppo e nell’animale adulto costituiscono il muscolo e il grasso, i due componenti principali della carne. Queste cellule sono prelevate dall’animale effettuando una biopsia, ossia prelevando un piccolo volume di carne, grande più o meno come un chicco di riso. Da questa biopsia si estraggono le cellule staminali e vengono messe in coltivazione all’interno di un liquido che contiene tutti gli elementi importanti per farle crescere, ossia zuccheri, vitamine e sali. Da un piccolo numero di cellule iniziali, quindi, grazie alla coltivazione in quest’ambiente, le cellule iniziano a dividersi per poi generare miliardi di cellule. Si tratta ancora di cellule staminali, non ancora convertite in muscolo o grasso. Per fare questo è necessario cambiare le componenti del terreno di coltura, cambiando quindi vitamine e sali, ossia quello che le alimenta. Ottenuto quindi muscolo e grasso, è possibile mescolarle tra di loro per ottenere il prodotto carne colturata. Si possono poi mescolare con biomateriali, in grado di dare struttura e forma del prodotto, creando una sorta di impalcatura che diviene supporto per la coltura grazie alla colonizzazione da parte delle cellule”.

Primo passo per un’operazione più ampia che riguarda la possibilità di far crescere in coltura alimenti per noi oggi quotidiani senza passare attraverso la macellazione degli animali?

“Il prodotto carne colturata nasce proprio per rispondere a necessità di natura ambientale ed etica nei confronti degli animali che vengono cresciuti per la macellazione in condizioni lontane dai concetti di dignità e benessere. La ricerca è nata in quell’ottica e si prefigge inoltre l’obiettivo di portare proteine della carne in paesi in cui, per condizioni sociali o ambientali, non è presente. Sono tre gli ambiti possibili in cui si può indirizzare questa ricerca: la fame nel mondo, il benessere animale con relativi aspetti bioetici e l'impronta che l’uomo, il sapiens, lascerà nel pianeta”.

Dal punto di vista della sicurezza alimentare, invece, si tratta di un prodotto che possiamo definire sicuro per l’uomo?

“La carne colturata rientra nella grande famiglia dei cibi innovativi, che sono disponibili da non più di vent’anni. In questo momento sia a Singapore sia a Tel Aviv, esistono ristoranti che lo servono ai propri clienti regolarmente. Per fare tutto ciò è evidente che il prodotto ha dovuto confrontarsi con le regolamentazioni in ambito di cibo innovativo presenti in questi paesi e che sono le stesse che si sta cercando di far sviluppare anche nei paesi in cui questo prodotto potrà essere disponibile tra qualche anno. Il prodotto viene generato in ambienti sterili, in totale assenza di batteri, microbi e contaminazione di alcun tipo. Anche gli addittivi aggiunti debbono essere approvati dagli enti regolatori. È quindi da ritenersi molto sicuro”.

Dario Bressanini, professore di Chimica all’Università dell’Insubria

“Chi la chiama carne sintetica lo fa per incutere ansia e paura”

Il professor Dario Bressanini è docente di chimica dell'Università dell'Insubria. Bressanini è molto attivo sui social, sui quali svolge attività divulgativa per tutto ciò che concerne la scienza e il contrasto alle fake news sull'alimentazione. Il QdS l’ha interpellato per capire quante delle informazioni che circolano in questo momento a proposito della carne colturata siano improprie, anche per l’uso errato delle parole.

Professore, iniziamo dall’uso delle parole. Carne sintetica o carne colturata?

“Carne colturata è la definizione giusta. È un errore che è fatto in maniera consapevole per incutere timore e ansia nel consumatore. In realtà si tratta della medesima procedura che si usa quando ‘coltiviamo’, anche se non si usa questo termine, dello yogurt o del lievito di birra per farli crescere. Per spiegarsi meglio, ci sono cellule che sono prelevate da un animale, quindi non create in laboratorio, e vengono fatte crescere, moltiplicare. È un’operazione che già si fa da tantissimo tempo. La coltura delle cellule animali è anche quella che ci permette di replicare la pelle che si usa nei trapianti, ad esempio, con un livello tale di garanzie e sicurezza della procedura tanto da inserirla nel corpo umano. La sfida, in questo caso, è cercare di riuscire a ottenere consistenza e sapore cui siamo abituati con la carne derivante dalla macellazione”.

Siamo quindi in presenza di una delle prime applicazioni concrete di un lungo viaggio progettuale e sperimentale…

“Sicuramente sì. L’idea di riuscire a produrre in un bioreattore su scala industriale cibo animale senza dover uccidere gli animali è di qualche tempo fa. Sembra che adesso si sia molto vicini al risultato. Esistono già diverse startup che stanno pensando di colturare il pesce, le uova, prodotti animali che potranno, in un futuro non prossimo, sostituire quelli che usiamo oggi. Poi non sappiamo se decideranno di produrre cibi costosi, come l’aragosta ad esempio, ma una cosa è certa: quando una tecnologia viene sviluppata non è più possibile tornare indietro. Quindi ci conviene prepararci”.

Si tratta di un passo successivo a quello che portò, nel 1996, alla clonazione della pecora Dolly?

“È un altro passo. La maggior parte dei consumatori, peraltro, non sa che da diversi decenni si utilizzano le tecniche di clonazione negli allevamenti. Sono clonati campioni di toro per fecondare e ottenere vitelli con determinate caratteristiche. Già oggi mangiamo, senza saperlo, animali che sono stati clonati”.

Perché non lo sappiamo?

“Perché in realtà non c’è nessun motivo. Sarebbe come voler sapere il nome del vitello da cui proviene la carne che stiamo comprando. Il processo non ha alcun problema sanitario o etico. Quello della clonazione ai fini della produzione alimentare è l’esempio di una tecnica che è passata in sordina, mentre quella di cui stiamo parlando sta colpendo molto di più l’immaginario delle persone”.

E dal punto di vista etico e sociale? Potrebbe essere, questo, uno degli strumenti con cui possiamo dare cibo di qualità, senza uccidere animali, a quella parte del mondo che ha problemi atavici di fame?

“Dal punto di vista etico si tratta di un grande avanzamento, anche perché riusciremmo a produrre cibo senza uccidere animali. Non credo, almeno per molto tempo, che questo si possa ripercuotere su paesi che soffrono di sicurezza alimentare, di food security, paesi che non riescono a produrre cibo sufficiente per la loro popolazione anche perché servono apparati tecnologici che, nei paesi con allevamenti estensivi poco efficienti, non esistono. Quando questi prodotti arriveranno sul mercato, saranno solo per i paesi industrializzati e con cittadini che vogliono ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti di bovini, e ruminanti in generale, che è molto elevato. Da questo ne deriverebbe l’avanzamento etico cui accennavo prima.

Aumenterà il rispetto del sapiens nei confronti degli altri esseri viventi?

“La polemica di queste settimane indica che una parte della popolazione si sente minacciata da questa tecnologia. Il fatto che si possa utilizzare il risultato di questa tecnologia può sicuramente aumentare la consapevolezza dei sapiens. Sono processi sociali molto lenti e la tecnologia non può cambiare la ‘testa’ delle persone da un giorno all’altro. Rimane il fatto che la presenza di questa possibilità sarà molto utile”.

Valentina Dara Guccione, presidente Coldiretti Palermo

“Cibo proveniente da bioreattori non può sostituire i prodotti Igp”

Già nel dicembre 2022 la Coldiretti, associazione di categoria che raggruppa in tutto il territorio nazionale oltre un milione e mezzo di associati ed è la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo, si è espressa pubblicamente annunciando che era state raccolte circa 350mila firme per promuovere la legge che vieti la produzione, l’uso e la commercializzazione in Italia del cibo sintetico. Si tratta di una contrarietà trasversale, come dimostrano le firme raccolte nell’ambito dell’iniziativa di Coldiretti, Campagna Amica, World Farmers Markets Coalition, World Farmers Organization, Farm Europe e Filiera Italia. Il QdS ne ha parlato con Valentina Dara Guccione, presidente di Coldiretti Palermo e imprenditrice che gestisce, assieme al fratello Giovanni, Biofarm, un luogo dove tradizione e innovazione s’incontrano e dove l'approccio agroecologico è vissuto come una filosofia di vita.

La contrarietà pubblica di Coldiretti all’immissione sul mercato della “carne colturata” è pubblica ma il recente rapporto della “Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura” (Fao) e della “Organizzazione mondiale della sanità” (Oms), ha messo in luce i veri rischi e le false paure dichiarando che non c'è nessun pericolo identificato dai ricercatori che non abbia già un corrispettivo nelle produzione di alimenti oggi. In poche parole si tratta un cibo sì, innovativo, che deve però seguire le stesse regole di sicurezza dei prodotti tradizionali. Qual è, quindi, la vostra posizione oggi?

“La nostra battaglia si basa, fondamentalmente, sia sull’aspetto etico sia su quello sociale ed economico che riguarda la nostra categoria. Le nostre produzioni rappresentano un’eccellenza. Immagino un mondo che si renda più consapevole del fatto che il prodotto italiano sia privilegiato, un prodotto le cui produzioni puntano più alla qualità che non alle logiche di produzioni agricolo-alimentari estensive. In tutto il mondo ci è riconosciuto il rispetto della biodiversità e della qualità dei cibi prodotti. Per questo siamo a favore delle scelte del Governo, perché altrimenti si ucciderebbero i principi e i valori della nostra cultura. L’Italia lega la produzione del cibo alle sue ricette che rappresentano uno specchio culturale legato al territorio. Le nostre aziende, perlopiù piccole e medie, si basano sulla cultura della famiglia e del cibo”.

In caso di espansione di questo mercato, sono note sperimentazioni che riguardano lattici e prodotti derivati, uova e pesce, cosa succederebbe alla filiera tradizionale?

“Non possiamo permettere che le nostre tradizioni, i nostri prodotti IGP, possano essere sostituiti da cibo proveniente da bioreattori, appannaggio della ricerca scientifica. Questo ci farebbe perdere, innanzitutto, la nostra identità”.

Uscendo dai confini italiani ed europei, però, ci sono paesi nel mondo che non hanno capacità produttiva e tradizioni simili alla nostra. La carne colturata, in questo caso, potrebbe essere una soluzione?

“Esistono altre strade. La Coldiretti ha già avviato accordi di sviluppo locale, creando strutture in grado di implementare e distribuire il valore e il know-how della produzione agricola, in Africa. Siamo, peraltro, a favore della possibilità di formazione degli immigrati per fargli acquisire quello che potremmo definire un valore aggiunto, sia nel lavorare in Italia diventando così una risorsa per l’agricoltura italiana, sia portatori di competenze qualora dovessero decidere di tornare nei loro paesi d’origine”.

Pensa che sia possibile trovare una “via centrale” al problema?

“Le problematiche sono in continua evoluzione. Non riesco a immaginare un’Europa che prenda una strada dissonante rispetto all’identità Europea. Oggi il capofila di queste scelte è l’Olanda ma non dobbiamo dimenticare che, dal punto di vista morfologico, è una nazione molto diversa non solo dall’Italia ma anche di Spagna e Francia. Mi auguro che proprio l’Italia, per le caratteristiche di cui abbiamo parlato, possa essere non solo l’esempio ma anche la guida per dirimere questa questione, diventando un esempio da seguire. Non possiamo inoltre, rischiare che le generazioni future siamo sommersi da messaggi che si vestono di sostenibilità. È chiaro che una strada alternativa debba essere immaginata e perseguita, ma non può essere questa”.

risuser

Lascia una risposta

Chiusi
Chiusi

Inserisci il tuo username o il tuo indirizzo email. Riceverai via email un link per creare una nuova password.

Chiusi

Chiusi