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Università, continua la fuga dei giovani dal Sud

Università, continua la fuga dei giovani dal Sud

Università, continua la fuga dei giovani dal Sud

L’emigrazione dei giovani siciliani verso le regioni del Nord Italia è una realtà ormai consolidata, dolorosa e con non poche conseguenze per il tessuto sociale ed economico dell’Isola. Un cane che si morde la coda: quasi un terzo dei ragazzi siciliani che continuano gli studi si rivolgono alle università delle regioni settentrionali. La scelta non è casuale, ma dettata dalla maggiore possibilità di entrare subito nel mondo del lavoro di queste regioni, che offrono una rete economica e imprenditoriale molto più vivace e attiva.

I giovani, quindi, partono per studiare ma non ritornano, e il territorio si impoverisce sempre più delle sue menti migliori. I dati vengono dal rapporto 2023 sulla condizione occupazionale dei laureati in Italia redatto come ogni anno da Almalaurea, un consorzio interuniversitario pubblico che comprende 80 università.

Gli iscritti negli atenei siciliani diminuiscono sempre più

Nel report si racconta come stia crescendo, di anno in anno, il divario tra Nord e Sud in termini di iscritti. In Sicilia, secondo i dati forniti dal Mur, il ministero dell’Università e della ricerca, negli ultimi tre anni accademici, è stata registrata una riduzione delle iscrizioni: a Palermo si passa da 8.510 a 8.338 allievi, mentre Catania scende a 7.321 a 6.284. Enna e Messina rimangono sostanzialmente stabili, con variazioni nell’ordine di poche decine. Alla riduzione delle iscrizioni corrisponde un aumento di coloro che decidono di andare a studiare fuori regione, in principal modo negli atenei delle regioni del Nord. Secondo Almalaurea, il 28,6% dei giovani del Mezzogiorno decide di conseguire la laurea in atenei del Centro e del Nord, con una preferenza verso gli atenei settentrionali.Tale quota, tra l’altro, risulta in crescita negli ultimi anni: era il 23,2% nel 2013. Il saldo migratorio, calcolato confrontando la ripartizione geografica di conseguimento del diploma e quella della laurea, è pari a +23,2% al Nord, a +19,9% al Centro e a -26,2% al Mezzogiorno. Chi rimane, molto spesso lo fa perché non può permettersi economicamente di partire.

Sulla scelta di trasferirsi o rimanere nella regione incide, infatti, anche la qualità della didattica e la disponibilità dei servizi. Senza dimenticare il fondamentale fattore della maggiore disponibilità di lavoro. In Sicilia, ad un anno dalla laurea lavora poco meno della metà dei laureati: il 48,1% a Palermo, il 49% a Catania, il 48% a Messina e il 43,8% a Enna. I numeri salgono di molto quando si vanno a considerare i dati relativi agli atenei del Nord Italia: a Milano si arriva al 64,1% dei laureati occupati a 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio, a Torino ci si attesta al 60,6%, mentre a Bologna si scende di poco, al 58,9%. In termini di retribuzione media mensile, invece, le cifre si mantengono più equilibrate. Se a Palermo un laureato guadagna mediamente 1.259 euro nette al mese, a Milano si sale, di poco, a 1.286 euro.

I giovani non migrano soltanto per studiare, ma molto spesso sono costretti a farlo dopo aver terminato gli studi: uno su tre (33,3%) per i laureati di primo livello, e uno su due (47,5%), per quelli di secondo livello, partono dalle regioni meridionali, con un incremento del 2% rispetto al 2021.

Un quadro allarmante

Il quadro che si viene a configurare è allarmante, ed è stato al centro del vertice dell’Osservatorio per la qualità dei servizi accademici Unicodacons e del Codacons Sicilia, che si è tenuto a Catania. “L’università non può più costituire un mondo a sé – ha detto Giovanni Petrone, presidente regionale Codacons - una sorta di ‘gabbia dorata’ del tutto autoreferenziale, noncurante delle reali esigenze del territorio e, in particolare, dei giovani che lo popolano”.Petrone ha anche evidenziato che i destinatari dei servizi accademici sono in primo luogo gli studenti, protagonisti dell’attività di formazione e senza i quali le università non avrebbero motivo di esistere. Pertanto, secondo Petrone, gli studenti e loro famiglie, che sostengono il pesante onere finanziario per mantenerli durante l’intero percorso formativo sino alla laurea e spesso anche oltre, hanno il diritto di pretendere dall’università l’erogazione di servizi didattici che siano il più possibile di qualità e propedeutici a reali prospettive occupazionali.

Massimo Midiri, Università di Palermo

“Innanzitutto nei miei quasi due anni di mandato stiamo registrando personalmente un incremento di iscrizioni al nostro ateneo – ha precisato al QdS il Rettore dell’Università di Palermo, Massimo Midiri -. Segno che c’è un appeal in netta controtendenza rispetto ad altri atenei del Sud. Anche sotto l’aspetto dei dati di Almalaurea credo che Palermo in chiave occupazionale si possa considerare una situazione atipica perché abbiamo messo in atto una politica che incentiva l’occupazione attraverso il sistema dei tirocini. I ragazzi nel loro ultimo periodo di permanenza all’Ateneo hanno un periodo di 3-4 mesi per completare il loro percorso di laurea e possono sfruttare proprio la corsia del tirocinio spesato dall’Università. Dal nostro bilancio abbiamo infatti stanziato un milione di euro per inserire i ragazzi all’interno di aziende del territorio. Non a caso, nel tempo sono stati messi in campo quasi tremila accordi con aziende del territorio, che vanno anche al di fuori dai confini provinciali e regionali. Il tirocinante viene quindi pagato in maniera proporzionale alla distanza. Questo crea una sorta di stipendio junior ma ha il vantaggio di creare un collegamento tra impresa e Università. In prospettiva il ragazzo potrebbe anche rimanere in azienda. In molti casi viene assunto, le aziende hanno ottimi riscontri con i nostri allievi. Ad oggi sono ben 456 i tirocini attivati, vale a dire i ragazzi che materialmente hanno sfruttato questa possibilità. Al di là di ogni aspetto economico con tale sistema si viene a creare un meccanismo di fidelizzazione che è enorme. Noi con il mondo degli imprenditori abbiamo un rapporto continuo. Un modo nuovo per dire che l’Università non è arroccata sulle proprie posizioni o all’interno del palazzo. Cosa serve in generale per migliorare i tassi occupazionali degli universitari in Sicilia? Mettere in campo dei tavoli congiunti con gli imprenditori per farci dire da loro cosa vogliono. Mancano delle posizioni professionali specifiche? È vero, lo dicono i numeri ma siamo chiamati a dare dei corsi che siano utili. Serve un pezzo di carta utile”.

Il Rettore dell’Università di Catania risponde alle domande del Quotidiano di Sicilia

“Innanzitutto, una notizia senz’altro positiva - esordisce il Rettore dell’Università di Catania, Francesco Priolo -. I dati sulle immatricolazioni 23-24, ancora non definitivi, ci dicono che quest’anno avremo probabilmente più del 20% di nuovi iscritti, forse anche una percentuale superiore, che migliora il trend degli ultimi anni. Abbiamo un basso numero di laureati in Italia, e questo è uno dei problemi principali del Paese rispetto ai partner europei, e di conseguenza stiamo intervenendo affinché, anche in Sicilia, i giovani scelgano di proseguire i propri studi, al termine del liceo. Grazie ad un progetto di orientamento finanziato dal Pnrr, ‘OUI-Ovunque da qui’, quest’anno siamo andati in una sessantina di scuole superiori di tutta la Sicilia a incontrare quasi 9 mila studenti del triennio finale per dimostrare loro quanto convenga e sia fondamentale scegliere l’Università, anche attraverso corsi mirati e attività di laboratorio”.

“È un’azione che continueremo nel tempo - prosegue Priolo - che può costituire la chiave di volta per contrastare l’abbandono universitario. Sono gli stessi dati Almalaurea a dirci poi che molti dei nostri laureati triennali, oltre il 75%, continua a studiare perché ritiene che completare la propria formazione con un corso magistrale sia strategico per conseguire un’occupazione più qualificata e una remunerazione adeguata. Il 70% dei laureati catanesi di secondo livello lavora già a un anno dal conseguimento dal titolo; a cinque anni dalla laurea questa percentuale è pari all’86,5%, sopra la media regionale. In alcuni settori, poi, i laureati sono assorbiti dal mondo del lavoro, ancor prima di laurearsi. Dobbiamo sfatare il falso mito che laurearsi al Nord è meglio. I nostri laureati sono apprezzati ovunque, in Italia e all’estero”.

Il dimissionario Rettore di UniMe traccia un bilancio

“I dati in nostro possesso – dice il rettore dell’Università di Messina Salvatore Cuzzocrea, che abbiamo intervistato qualche giorno prima delle sue dimissioni - non indicano che gli studenti universitari nelle università siciliane stentino a crescere o diminuiscano. Facendo riferimento ai dati Miur sulle immatricolazioni negli ultimi cinque anni gli immatricolati a nuovi corsi di studio ha visto un sostanziale aumento in termini percentuali. Per esempio gli immatricolati presso l’università degli studi di Messina è cresciuto da 3.964 nell’anno accademico 2017/2018 a 4.903 nel 2022/2023 con un incremento di oltre il 29%. Di contro, altri Atenei hanno subito nello stesso periodo una contrazione, come Milano Statale, Napoli Federico II, o una crescita più contenuta come Bologna, Roma La Sapienza)”.

“Per quanto riguarda la condizione occupazionale dei laureati - sottolinea Cuzzocrea - è certamente vero che vi sia un gap tra la percentuale di individui che hanno trovato una collocazione all’interno del mercato del lavoro ad un anno di distanza dal conseguimento del titolo presso gli atenei siciliani e quelli provenienti da altre università”.

“È tuttavia necessario osservare che la percentuale degli studenti inseriti nel mercato del lavoro ad un anno dal titolo sono pari al 64% tra i laureati presso un Ateneo siciliano rispetto al 74.6% della media italiana. A cinque anni tuttavia il gap si riduce di pochi punti (85.1% in Sicilia contro l’88.5% in Italia) secondo quanto riportato dall’XXV indagine AlmaLaurea sul profilo occupazionale dei laureati italiani. Queste percentuali sono leggermente più basse per i laureati presso l’ateneo Peloritano (57,6% ad un anno e 84,1 a cinque anni). I dati indicano che sussiste almeno nel breve periodo una maggiore difficoltà degli studenti siciliani ad inserirsi nel mercato del lavoro, per quanto i differenziali nel medio periodo (cinque anni) tendono ad annullarsi”, conclude Cuzzocrea.

Michele Giuliano

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