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La Ragioneria di Stato boccia le politiche di spending review

La Ragioneria di Stato boccia le politiche di spending review

La Ragioneria di Stato boccia le politiche di spending review

Tagliare la spesa pubblica? Mission impossible. La bocciatura sulle politiche di spending review è arrivata lo scorso 30 dicembre dalla Ragioneria generale dello Stato, che nella Relazione “La revisione della spesa del bilancio dello Stato” ha messo sotto esame le procedure di revisione della spesa messe in atto dai ministeri della Salute e della Giustizia nel triennio 2018-20.

La Relazione certifica nero su bianco che “non è stata riscontrata una sostanziale capacità, da parte delle Amministrazioni, di revisione e controllo economico-finanziario delle politiche pubbliche, in un contesto procedurale di bottom-up che, secondo l’Ufficio parlamentare del Bilancio, si è focalizzato su voci di spesa minori”.

Facciamo un passo indietro. La più recente innovazione al quadro regolatorio della revisione della spesa è legata al decreto legislativo n. 90/2016, che ha previsto l’integrazione della spending review all’interno del ciclo di bilancio dello Stato. La novità sostanziale della norma risiede nel fatto che, sulla base degli obiettivi assegnati mediante un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm) di attuazione, i Ministeri di spesa sono chiamati ad avanzare proposte coerenti con le prescrizioni incluse nel Documento di economia e finanza (Def). L’applicazione della procedura del 22-bis si fonda, quindi, sulla responsabilizzazione di ogni amministrazione alla selezione e alla proposizione di interventi finalizzati al raggiungimento degli obiettivi di spesa ricevuti dal Governo, che per prassi sono orientati alla riduzione dell’indebitamento del Paese anche mediante proposte di riallocazione delle risorse.

La pubblica amministrazione però non si è mostrata all’altezza del compito, arduo senz’altro ma non impossibile. E mentre la pubblica amministrazione si dimostra incapace di operare le opportune “potature” ai capitoli di spesa, le uscite continuano vertiginosamente a salire: le uscite totali autorizzate aumenteranno nel 2025 del 31,9 per cento sul 2019 - con un picco del 38,9 per cento sull’anno che è appena iniziato, raggiungendo quota 1.183, 6 miliardi di euro - a un ritmo cioè molto più veloce rispetto a quella del Pil che secondo le previsioni crescerà dal 2019 al 2025 di appena il 4,6 per cento.

A pesare sull’aumento delle uscite saranno soprattutto le pensioni (+28,1 per cento) e gli interessi passivi (62,1 per cento), mentre la spesa per la sanità, per i consumi intermedi e per i redditi dei lavoratori dipendenti cresceranno sì ma a ritmi più contenuti.A ciò si aggiunga che quasi tutte le risorse “risparmiate” sono state utilizzate per “coprire” misure – per lo più previdenziali e assistenziali – o come concorso indiretto alla riduzione del deficit.

Là dove tutti i governi hanno sempre fallito

Il tema della spending review attanaglia il Paese da decenni. L’arduo compito di analizzare la spesa pubblica al fine di migliorarne qualità ed efficacia utilizzando il minimo delle risorse necessarie toccò per prima alla Commissione tecnica per la spesa pubblica che, istituita dalla legge finanziaria per il 1981, operò fino al 2003. Ad essa erano demandati compiti di analisi e di valutazione dei provvedimenti aventi riflessi sulla spesa pubblica, nonché dell’efficienza della spesa nei vari settori.

La legge finanziaria per il 2007 istituì, con lo zampino dell’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa, la Commissione tecnica per la finanza pubblica con compiti riguardanti anche il programma di revisione della spesa al fine di individuare criticità e opzioni di riallocazione delle risorse. Fu poi soppressa dal D.L. n. 112/2008.

Il 2012 aprì le danze alla stagione dei commissari: il 30 aprile Enrico Bondi fu chiamato a coordinare l’approvvigionamento di beni e servizi pubblici, con l’obiettivo di recuperare i 4,2 miliardi di euro necessari a evitare l’aumento dell’Iva. Il 7 gennaio 2013 però si dimise. Al suo posto arrivò Mario Canzio che rimase in carica solo cinque mesi: formatosi il nuovo governo Letta, Canzio lasciò l’incarico. La palla passò quindi a Carlo Cottarelli, nominato nel 2013, sotto il governo Letta, con mandato triennale e poteri ampliati. Nel 2014 preparò un piano per ridurre la spesa a regime di 34 miliardi nel 2016 che però restò in gran parte inattuato: complice il rapporto non idilliaco con Matteo Renzi (al governo dopo la breve esperienza di Enrico Letta che lo aveva scelto), nell’ottobre 2014 chiuse la sua esperienza di commissario.

Nel 2015 l’esecutivo Renzi affidò l’incarico di commissario per la spending review a Yoram Gutgeld che concentrò la sua attività su sanità, enti locali e sicurezza, fissando a 29,9 miliardi i risparmi conseguiti nel periodo 2014-2018. Una grossa fetta di quelle risorse frutto della spending review (12,7 miliardi) furono però dirottate a prestazioni previdenziali e assistenziali, quindi a spesa improduttiva. Con il primo governo Conte i commissari raddoppiarono: Laura Castelli (M5s) e Massimo Garavaglia (Lega) vennero nominati nell’aprile del 2019 ma rimasero in carica pochi giorni. Adesso la scommessa passa al governo Meloni.

Serve un Piano

L’inefficienza della cosa pubblica italiana dipende anche – e forse soprattutto dall’assenza di una strategia organizzativa che è condizione essenziale per il buon funzionamento della macchina amministrativa.Ad aver adottato il Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) istituito dall’art. 6 del “Decreto Reclutamento” (il decreto-legge n. 80/’21, convertito dalla legge n. 113/’21) è, alla data di ieri, meno della metà degli Enti pubblici interessati dalla norma (tutte le pubbliche amministrazioni ad esclusione delle scuole).

Ad oggi il Portale Piao conta infatti 5.502 piani pubblicati: un numero ben al di sotto della metà, appunto, dei circa 12.800 enti pubblici censiti dall'Istat.La questione ha però radici ben più profonde, legate al modo – incomprensibile e tortuoso – con cui da oltre trent’anni vengono formulate le leggi dal Parlamento italiano. Per essere osservata e fatta osservare, una legge deve infatti essere compresa. Così non è. Purtroppo. E a pagare sono sempre i cittadini.

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