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Unimpresa, tutte le aziende isolane sono ad alto rischio di fallimento

Unimpresa, tutte le aziende isolane sono ad alto rischio di fallimento

Unimpresa, tutte le aziende isolane sono ad alto rischio di fallimento

CATANIA - La crisi economica che stiamo attraversando è una conseguenza diretta delle misure di contenimento adottate dal governo per fronteggiare la pandemia. Per capire questa fase rispetto all’economia siciliana pre – Covid è necessario analizzare alcuni indici che ci consentono di capire lo stato di salute di alcuni settori.

Secondo i dati di Infocamere, analizzati dal Centro Studi di Unimpresa, da Aprile a Settembre 2020 sono cessate in Sicilia 6.800 imprese, ovvero oltre 37 imprese al giorno. Tra i settori mancano all’appello oltre 2.150 imprese del commercio (12 imprese al giorno), oltre 600 imprese dell’edilizia, 590 del turismo ( oltre 3 imprese al giorno ), oltre 400 imprese industriali ( 2 imprese al giorno ), 130 imprese dei trasporti, 1.500 imprese artigiane (8 imprese al giorno ).

In termini di percentuali preoccupa il dato del commercio che con 2.161 imprese chiuse rappresenta quasi il 32% delle cessazioni. Guardando alla configurazione per province al 1° posto troviamo Catania che con 1.780 imprese chiuse rappresenta oltre il 26% delle cessazioni, seguita da Palermo con 1.368 cessazioni e una percentuale del 20% sul totale e Messina con 908 cessazioni.

Guardando all’impatto sulle imprese dell’emergenza Covid, secondo i dati analizzati Anpal e Unioncamere nelle isole e in Sicilia alla data dell’8 Ottobre il 41,6% delle imprese si classifica con attività a regimi simili a quelli pre emergenza; il 55,45 con attività a regime ridotto e il 3% con attività sospesa per cui si valuta la chiusura. Il periodo previsto dalle imprese del sud e delle isole entro il quale si potrà riprendere l’attività a livelli accettabili è per il 14% entro l’anno 2020; per il 32,5% entro i primi 6 mesi del 2021 e per il 53,5% entro il secondo semestre 2021. Il dato più preoccupante è che nel sud e nelle isole il 57% delle imprese prevede grossi problemi di liquidità nei prossimi 6 mesi.

La Sicilia a fronte delle 263.850 unità di personale previste in entrata su tutto il territorio nazionale per il mese di Novembre, con 13.490 unità rappresenta il 5% e si colloca all’8° posto su base nazionale. Nella configurazione per province Palermo con 4.280 unità si colloca al 1° posto, seguita da Catania con 3.020 unità, Messina e Siracusa. In Sicilia nel mese di Novembre secondo le previsioni dovrebbero assumere circa 8.350 imprese con un calo del 18% rispetto allo stesso mese del 2019. Tra i settori interessati l’industria con 2.380 imprese e i servizi con 5.970 imprese. Tra i contratti previsti il 48% a tempo determinato, il 30% a tempo indeterminato e il 22% altri contratti.

Secondo i dati diffusi dalla Banca D’Italia il Covid ha messo in ginocchio l’economia siciliana, condizionando nei primi nove mesi dell’anno l’imprenditoria che ha risentito delle misure di contenimento della pandemia. Nonostante il regolare svolgimento delle attività dei mesi estivi, sì è avuto un recupero del tutto insufficiente. Il 50% delle aziende ha registrato una notevole perdita di fatturato e di utili.

La preoccupazione più seria è che le aziende siciliane non hanno più la liquidità sufficiente per la gestione corrente. Probabilmente riusciranno ad andare aventi solo quelle aziende con importanti riserve di capitale o che riuscirebbero ad accedere al credito bancario tramite il Fondo di Garanzia.

“Purtroppo - afferma il Presidente di Unimpresa Sicilia Salvo Politino - di dati della crisi se pur devastanti, non sono stati ancora compresi. Basti pensare che il 23% delle aziende italiane ha un capitale circolante negativo con livelli di indebitamento eccessivi. La pandemia ha determinato per le piccole e medie imprese siciliane una perdita secca, e se si pensa con la cassa integrazione di risolvere i problemi si commette un errore strategico. La cassa integrazione può ridurre il problema ma le aziende con i bilanci in rosso, ovvero con debiti e costi superiori agli incassi, non fanno altro che aumentare l’indebitamento.

A fronte di un calo di fatturato causato dalla pandemia, una perdita di liquidità ormai evidente, e i costi superiori agli incassi, è necessario, con urgenza mettere in campo la politica dei sostegni veri e rapportati alle perdite del periodo pandemia senza creare false illusioni.

Bisogna però fare i conti con un bilancio dello Stato su cui pesa come un macigno il debito pubblico che supera i 2.200 miliardi e su cui si vanno a pagare oltre i 100 miliardi l’anno di interessi.

Va anche attenzionata la situazione delle banche italiane che dovrebbero finanziare le imprese con il ricorso al fondo di garanzia, ma che si trovano a fare i conti con i crediti deteriorati, che non hanno svalutato del tutto e che tengono in bilancio con un valore tra il 45 e 50%. Peccato che nessuno li acquisti e ne tantomeno vengono prese in considerazioni eventuali ipotesi di chiusura a stralcio dei diversi debitori, ma paradossalmente si arriva al 20% quando ci sono le offerte di società di recupero credito. A chi fanno riferimento queste società?

Prova ne è che nell’ultimo periodo, in piena pandemia, la Banca D’Italia, autorità nazionale competente nell’ambito del meccanismo di vigilanza unico e il cui Governatore viene nominato con Decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, abbia imposto criteri rigidi di valutazione del merito creditizio per le imprese italiane, a prescindere dall’utilizzo del fondo di garanzia dello stato, ovvero della famosa “ potenza di fuoco”.

All’interno di questo quadro abbastanza complesso e di difficile comprensione, le imprese colpite dalla pandemia continuano a rivendicare il diritto a lavorare e la presenza dello stato quale elemento di garanzia. E’ giunto il momento conclude - Politino - di fare emergere la vera realtà del “Sistema Italia”, su cui pesa l’enorme debito pubblico, la mancanza di una copertura finanziaria per fare fronte alle legittime richieste delle piccole e medie imprese, una burocrazia ormai divenuta inaccettabile e una politica assente che ha adottato delle misure inadeguate. In tutto ciò dove sono finiti i valori di coesione economica, sociale e territoriale dell’Europa?”.

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