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Lavoro, pochi candidati e poco preparati: ecco le principali cause del mancato reperimento da parte delle aziende

Lavoro, pochi candidati e poco preparati: ecco le principali cause del mancato reperimento da parte delle aziende

Lavoro, pochi candidati e poco preparati: ecco le principali cause del mancato reperimento da parte delle aziende

Pochi candidati e poco preparati. Queste sono le principali cause del mancato reperimento dei lavoratori da parte delle aziende. Nel 2022, secondo quanto riportato da Excelsior-Unioncamere, di fronte a cinque milioni di domande di lavoro, sono stati assunti due milioni di lavoratori e lavoratrici, vale a dire un po’ più del 40%.

Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

“Bisogna tener conto di due ragioni: la prima, troppa assistenza; la seconda, basse remunerazioni. E per quanto riguarda quest’ultime bisogna considerare poi un ulteriore elemento, il fatto che l’apprendistato non è sempre utilizzato per come è stato effettivamente formulato”, dice al QdS Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.La causa della mancata preparazione è in crescita costante, raddoppiata dal 2018, mentre quella relativa all’inadeguatezza dei candidati resta sostanzialmente ferma tra l’11% e il 12%. Il mancato incontro tra offerta e domanda sembra essere il problema maggiore del mercato del lavoro: sia nel segmento “alto”, dove ciò che manca è il profilo professionale, sia in quello basso dove è carente l’offerta, non certo incentivata dalle retribuzioni che settori a zero crescita produttiva e bassa professionalità sono in grado di offrire.

Come si può cambiare rotta?

“Pagando di più, per esempio. Abbiamo medici che vengono utilizzati in corsia per fare il praticantato che lavorano dalle dieci alle quindici ore al giorno per compensi che non valgono neppure la metà o un terzo di quelli svedesi. Sappiamo da anni che la chiusura del test di medicina avrebbe causato anche questi risultati”.

L’Italia continua a essere fanalino di coda in Europa: per tasso di occupazione globale (60%) contro il 69,9% della media Ue, per occupazione femminile (51% contro il 64,9% della media europea), per occupazione giovanile (19,8% contro una media del 34,7%), per occupazione senior (54,9% contro il 62,6% della media europea). Un quadro allarmante?

“Sì. Per tasso di occupazione siamo indietro oltre dieci punti rispetto alla media europea e un po’ più rispetto a quella Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Ma, soprattutto, ci distanziamo 18 punti rispetto a Paesi “competitor” come Francia, Olanda, Danimarca e tutta l’area scandinava. C’è un secondo dato da tenere presente: siamo invece ai vertici per quanto riguarda i Neet, persone che non studiano, né lavorano, né ricevono formazione, pari a poco meno del 20%, un quinto della popolazione di riferimento, giovani che arrivano fino a 29 anni di età. Una percentuale che supera di 7 punti la media europea e anche di più quella dei nostri Paesi competitor. Per quanto riguarda l’occupazione femminile, abbiamo toccato a fine 2022 il record di tutti i tempi, il 51%. Infine, la media dei lavoratori senior italiana, cioè quelli tra i 55 e i 64 anni, è al 55% contro il 62% di quella europea. Viviamo in un Paese strano”.

In che senso?

“Si spendono 130 miliardi ogni anno per il lotto, il gratta e vinci, giochi regolari o irregolari. Un record assoluto. Una cifra che supera di tre miliardi quella della spesa sanitaria (127 miliardi di euro). Spendiamo di più per le droghe (leggere e pesanti), posizionandoci nei primi tre posti tra i Paesi Ue. Abbiamo il 130% degli abitanti con contratti di telefonia mobile, il 97% degli italiani possiede uno o più smartphone e siamo il Paese con la più alta percentuale di abbonamenti in piattaforme streaming. Non solo. Potrei parlare anche del parco auto circolante. Dopo il Lussemburgo, Stato più ricco d’Europa, c’è il Belpaese. Concludo pensando a evasione fiscale e lavoro sommerso: possiamo posizionarci al primo posto in queste classifiche e avere queste percentuali di lavoro?”

Quanto incide negativamente la spesa per l’assistenza sociale?

“Molto. Alla fine del 2008, dopo il fallimento Lehman Brothers, lo Stato italiano spendeva 73 miliardi per l’assistenza sociale. Nel 2021 siamo passati a 145 miliardi, praticamente il doppio. A queste cifre bisogna aggiungere altri 11 miliardi per l’assistenza sociale a carico degli enti locali, delle province e delle Regioni. Per un totale di 156 miliardi di euro, esattamente la cifra della spesa per le pensioni al netto dell’Irpef. La differenza è che più del 90% della prima è a carico della fiscalità generale, la seconda attinge invece ai contributi dei lavoratori attraverso cui vengono poi finanziate le pensioni”.

Con il raddoppio della spesa è stata diminuita la povertà?

“No. Il problema è proprio questo. Nel 2008, 2 milioni 100mila italiani si trovavano in povertà assoluta, ciò significa non arrivare neppure alla seconda settimana del mese. Nel 2022 i numeri sono più che raddoppiati, toccando i 5,6 milioni. Una situazione di pura follia, a fronte del costante incremento della spesa per assistenza”.

In Italia è occupata meno della metà della popolazione e, nel frattempo, mancano i braccianti per lavorare i campi. Perché?

“È un paradosso. All’Italia occorrono oltre 100mila persone che lavorano i campi. Nel nostro Paese contiamo solo 23 milioni lavoratori e lavoratrici a differenza dei 36 milioni su 60 milioni in Francia e più di 41 milioni su 80 milioni in Germania. La risposta è semplice: se lo Stato continua a elargire forme di assistenza a piè di lista, senza controlli e senza prendere in carico (solo) chi ha effettivamente bisogno, chi avrà voglia di lavorare? Nessuno. Tra un sostegno e l’altro si tira, come si suol dire, a campare”.

Un altro problema sono i salari bassi. In che modo si può risolvere?

“Non si può permettere, per esempio, che diversi supermercati arrivino a vendere una vaschetta di fragole poco più di un euro. Considerando che hanno una marginalità del 50% più Iva, ciò significa che il ‘guadagno’ di chi lavora nei campi ammonta a circa 2 euro, o poco più. Un fenomeno che si verifica sia al Nord che al Sud e la cui conseguenza è l’aumento della povertà. L’Istat parla chiaro: il 30,6% della povertà assoluta è composto da persone straniere, extracomunitarie o famiglie aventi il capofamiglia straniero o extracomunitario. E più del 32% si trova in povertà relativa. Numeri che fanno oltretutto sorgere dubbi seri dubbi sulla sostenibilità dei percorsi di integrazione e su politiche per l’immigrazione fondate sull’importazione di manodopera a bassa qualificazione e a basso, bassissimo costo. Sono peraltro anche queste dinamiche che ci portano ad avere in Italia i salari più bassi d’Europa. In tre decenni abbiamo perso il 2,9% in termini reali, mentre la Spagna ha guadagnato il 4,6%”.

Quanti occupati si perdono con il ricambio generazionale?

“Ogni anno vanno in pensione 750mila persone e, quando va bene, subentrano dai 500mila ai 550mila lavoratori. Quindi, una perdita di circa 200mila unità”.

Garanzia Giovani, negli ultimi nove anni, ha collocato al lavoro 540mila giovani (il 67% di coloro presi in carico) e il 62% dei collocati ha avuto un contratto a tempo indeterminato. GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori) ha collocato 63mila persone, pari al 17% dei presi in carico. Oltre alle due misure, quali azioni dovrebbe mettere in campo il Governo?

“Le due misure funzionano ma si potrebbe fare di più. Il problema del nostro Paese è che gli uffici di collocamento e massima occupazione sono uguali a quelli di 25 anni fa, scoordinati e non collegati tra loro, dipendono da ogni Regione e ognuno fa ciò che vuole (pur con qualche caso virtuoso). L’Italia è l’unico Paese che non ha una piattaforma di domanda e offerta: se un’azienda di Bari ha bisogno di un lavoratore, chi non vive in Puglia come ne viene informato? A ciò aggiungiamo che gli uffici si trovano sotto organico e che c’è un serio problema di orientamento e formazione professionale, con studenti che spesso escono da scuola senza aver acquisito skill utili alle aziende. Si deve riformare il sistema scolastico e creare dei grandi centri che puntino su ricerca e tecnologia in ogni settore non solo al Nord Italia ma anche e, soprattutto, al Sud. Questo sbilanciamento tra Settentrione e Meridione non fa bene a nessuno”.

A proposito del mondo tech, in futuro le tecnologie 3.0 porteranno a prolungati periodi di occupazione. Qual è la fotografia attuale del nostro Paese?

“Giusto per fare un esempio, da una parte, continuiamo a formare migliaia di insegnanti (senza oltretutto risolvere il problema dei precari) e, contemporaneamente, il tasso di natalità annuo è sceso da 800mila bambini a meno di 400mila. Questo significa rischiare di avere una marea di disoccupati che non troveranno sbocco nell’istruzione. In Lombardia, invece, mancano 500mila figure professionali nel settore tecnologico, che sappiano lavorare su macchine a controllo numerico. A Milano manca il 30% dei medici e si fa in generale fatica a trovare studenti che si orientino verso istituti tecnico-professionali. Il chiaro sintomo di uno Stato centrale e di una politica che negli ultimi vent’anni, destra o sinistra che sia, non è riuscita a progettare il futuro, ma lo ha semplicemente inseguito”.

Landini: “Bisogna aumentare i salari, stiamo vivendo di precarietà”

“Le scelte del Governo” in tema di lavoro “non ci piacciono” perché si va “sempre più verso la precarietà”.A scandirlo è il leader della Cgil, Maurizio Landini, che non esclude una mobilitazione generale dei sindacati.Il segretario generale della Cgl ha inoltre rilevato che “bisogna cancellare certe forme di lavoro precarie e non va permesso alle imprese di assumere” lasciando le persone precarie per sempre.

La ricetta di Landini è chiara: bisogna abbandonare la “deriva” precaria e alzare subito i salari.Pur apprezzando il tentativo da parte del premier Meloni di aprire un dialogo con le parti sociali, Landini punta il dito contro l’Esecutivo sollecitando interventi urgenti. “Ci ha fatto piacere che il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sia venuta alla Cgil ma il Governo deve agire sul lavoro”, ha spiegato. “Ma deve cominciare a mettere i soldi sui salari” e “servono politiche attive per affrontare i problemi del lavoro”, non è “tagliare il Reddito di cittadinanza” che risolve il problema.

“È aumentata troppo la ricchezza di pochi” ha aggiunto Landini che sollecita il Governo a intervenire già nella prossima legge di bilancio, anche su un altro fronte, quello dei contratti del settore pubblico che sono bloccati da anni: dalla sanità alla scuola. Il governo dove è datore di lavoro “deve iniziare lui a mettere i soldi”.

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