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In Sicilia meno imprese negli ultimi 10 anni ma è in crescita il numero dei dipendenti

In Sicilia meno imprese negli ultimi 10 anni ma è in crescita il numero dei dipendenti

In Sicilia meno imprese negli ultimi 10 anni ma è in crescita il numero dei dipendenti

PALERMO - Nonostante la pandemia, nonostante la crisi, le aziende siciliane continuano a lottare per rimanere sul mercato, insieme ai propri dipendenti. Secondo i dati dell’osservatorio imprese dell’Inps, negli ultimi 10 anni le imprese siciliane, del settore privato non agricolo, sono diminuite, ma l’andamento dal 2021 sta cambiando. Se nel 2012 le imprese erano 121.133, queste sono scese, con alti e bassi, fino a poco più di 113 mila, risalendo nel 2021 a 118.456. D’altra parte, sono aumentati i dipendenti, e di concerto i contributi versati nell’anno di riferimento. Nel 2012, infatti, il numero medio delle posizioni lavorative è stato di 531.178 unità.

Nell’arco dei dieci anni questo numero ha subito un andamento altalenante, ma una crescita continua dal 2018 ad oggi, anche in piena pandemia, raggiungendo il valore di 561.072 unità; di conseguenza, anche i contributi versati nell’anno sono aumentati, arrivando a poco meno di 4 miliardi di euro. Mediamente, si registrano 4,74 posizioni lavorative per impresa. Un segnale positivo, che vede le imprese cercare di lavorare al meglio, onestamente, sfuggendo il più possibile dal “nero”, con dipendenti che vengono tutelati dal proprio datore di lavoro attraverso un contratto chiaro e rispettoso della legge. Ciò non toglie che l’irregolarità nel mondo del lavoro rimane un fattore estremamente patologico nel quadro dell’economia isolana: secondo i dati dell’Istat, elaborati dell’ufficio studi della Cgia di Mestre, nel 2021 erano quasi 283.000 i lavoratori “in nero” in Sicilia, con un tasso di irregolarità del 18,7%. Numeri che si trasformano in cifre a molti zeri se li si traduce in moneta sonante: il lavoro irregolare in Sicilia produce 6,235 miliardi di euro, che incide, in termini percentuali, sul valore totale del lavoro nella regione, per ben il 7,8%. In totale, il lavoro nero presente in Italia “produce” ben 77,7 miliardi di euro di valore aggiunto, una piaga la cui risoluzione porterebbe nelle casse dello Stato tantissimo denaro e aiuterebbe il mondo del lavoro a vivere in maniera più “sana” e allineata con le buone regole del vivere civile.

A livello nazionale, come ormai assodato storicamente, la situazione più critica si registra nel Mezzogiorno, in cui il fenomeno presenta radici molto più profonde e difficili da sradicare. In Calabria, ad esempio, il tasso di irregolarità è del 22% e l’incidenza dell’economia prodotta dal sommerso sul totale regionale ammonta al 9,8%. Altrettanto critica è la situazione in Campania, dove gli oltre 361 mila occupati non regolari provocano un tasso di irregolarità del 19,3% e un Pil da “nero” sul totale regionale dell’8,5%. Non è soltanto una questione economica, quindi, ma anche culturale: è importante spingere in termini di “educazione” e cambiamento nelle nuove generazioni, che non pensino che fare i “furbetti” sia ininfluente, ma comprendano che si tratta di concorrenza sleale, oltre che di un vero e proprio furto dalle proprie stesse tasche: a rimetterci non sono solo le casse dell’erario e dell’Inps, ma anche le tantissime attività produttive e dei servizi, le imprese artigianali e quelle commerciali regolarmente iscritte presso le camere di commercio che, spesso, subiscono la concorrenza sleale di questi soggetti.

I lavoratori in nero, infatti, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, a quelli assicurativi e a quelli fiscali consentono alle imprese dove prestano servizio – o a loro stessi se operano sul mercato come falsi lavoratori autonomi – di beneficiare di un costo del lavoro molto inferiore e, conseguentemente, di praticare un prezzo finale del prodotto/servizio molto contenuto.

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