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Cibo contaminato, ecco quali veleni finiscono sulle nostre tavole

Cibo contaminato, ecco quali veleni finiscono sulle nostre tavole

Cibo contaminato, ecco quali veleni finiscono sulle nostre tavole

ROMA – Ogni giorno mettiamo sulle nostre tavole alimenti “avvelenati”. In più di 4 casi su 10 (il 44,1%), infatti, i nostri piatti contengono tracce di pesticidi e fitofarmaci. È la preoccupante fotografia scattata da Legambiente nel suo rapporto “Stop pesticidi nel piatto”, realizzato in collaborazione con l’associazione di agricoltori biologici Alce Nero, che evidenzia come nel 2021, rispetto all’anno precedente, vi sia stato un incremento del 7% di contaminazione degli alimenti. Sebbene la quantità presente non superi quasi mai le soglie consentite, solo la metà dei 4.313 campioni di alimenti di origine vegetale e animale analizzati è scevra dalla contaminazione di qualsiasi fitofarmaco, mentre il 14,3% ha traccia di un prodotto e quasi il 30% è contaminato da almeno due tipi diversi di pesticidi. Se è vero che la pandemia ha reso gli italiani dei consumatori più consapevoli e attenti a ciò che portano sulle proprie tavole, con l’82% che preferisce mangiare solo ciò che conosce come evidenziato dalla ricerca Coldiretti Censis riferita al 2021, è altrettanto evidente che nel nostro Paese si ricorre ancora in modo significativo all’utilizzo di fitofarmaci.

Stando alle rilevazioni Eurostat, infatti, in Italia abbiamo assistito a un incremento dell’8,66% rispetto al 2020 per un totale di 121 milioni di kg di pesticidi, di cui la metà sono fungicidi, mentre la restante parte è rappresentata da erbicidi, insetticidi e acaricidi. Numeri importanti se si considera che, in tutta Europa, nello stesso anno sono state vendute 350 mila tonnellate, motivo per cui il Belpaese si conferma in cima alla classifica del continente per uso di fitofarmaci, seguita da Spagna, Francia e Germania. Le sole quattro nazioni, infatti, raggiungono insieme il 75% del complesso di antiparassitari venduti.

Di frutta, verdura e di "altri veleni"

A pagare le spese più importanti della contaminazione chimica, come evidenzia Legambiente, è sicuramente la frutta, con il 70% dei campioni analizzati che contengono residui. Le categorie più colpite sono le pere (91,67%), l’uva (88,37%), e le pesche (80,65 %). Quantità irrisorie, invece, pari al 6% per quanto riguarda i piccoli frutti come more, lamponi e bacche. Numeri importanti, sebbene meno consistenti, per quanto riguarda la verdura: in oltre 6 casi su 10, infatti, è stata riscontrata la presenza di pesticidi, specie nei peperoni e nei pomodori con, rispettivamente, il 60,68% e 55,03% di contaminazione.

Dati più confortanti, invece, per il miele che, rispetto ai 108 campioni analizzati dall’associazione, in 7 casi su 10 non ha presentato tracce di residui. Non riescono a sfuggire all’influenza dei veleni, nella categoria dei prodotti trasformati, neanche cereali integrali e il tanto amato vino, sebbene tra quelli con la maggior percentuale di contaminazioni regolari e, nel dettaglio, rispettivamente pari al 78% e al 62%.

A voler proprio essere precisi e per dare un nome ai veleni che ingeriamo quotidianamente, i pesticidi più comuni presenti nei campioni analizzati sono: Acetamiprid, Boscalid, Fludioxonil, Azoxystrobina, Tubeconazolo, Fluopyram ma ancheThiacloprid e Imidacloprid. Nomi tecnici, ovviamente, che di per sé non ci danno una dimensione della loro pericolosità per la salute umana se non considerati in riferimento alle specifiche caratteristiche chimiche e alle interazioni specifiche con l’organismo umano.

“I pesticidi sono interferenti endocrini – dichiara al QdS Margherita Ferrante, direttrice del laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania - quindi interferiscono con i recettori ormonali ed esercitano la loro azione anche in dosi bassissime. Tutto dipende dalla quantità, dal tempo di esposizione e dal tipo di recettore che viene interessato. Non parliamo solo dei pesticidi ma anche di tutta una serie di composti, tra cui rientrano gli idrocarburi policiclici, molti metalli, i composti utilizzati come plasticizzanti, quelli ignifughi. Tutti elementi molto utilizzati negli anni e quindi diffusi nell’ambiente”.

Metalli che "pesano" sulla salute e...

A contaminare i nostri piatti, però, non vi sono solo i fitofarmaci ma anche i cosiddetti “metalli pesanti”. Capita non di rado, infatti, che interi lotti di prodotti o, ancor peggio, prodotti alimentari destinati al commercio contengano quantità di contaminazione chimica da metalli superiore alla soglia massima consentita, per poi essere ritirati dal marcato. Questo accade perché elementi come, cadmio, piombo, mercurio ma anche arsenico e nichel, presenti normalmente in natura, finiscano per arrivare sulle nostre tavole perché a contatto con il terreno, l’acqua e, inevitabilmente, con tutto ciò che mangiamo.

L’uomo, va detto, entra normalmente e quotidianamente in contatto con questo tipo di elementi sia l'ambiente, come ad esempio per via inalatori, sia tramite l'ingestione di cibo e acqua. Quest’ultimo canale di esposizione alimentare, però, come osservato da diverse ricerche dell’Istituto superiore di Sanità nazionale, è di gran lunga la più significativa per la popolazione. I metalli, di per sé, sono privi di funzioni fisiologiche ma, a lungo termine, possono avere effetti di elevata tossicità sull’organismo umano in quanto il loro accumulo può interferire con il normale metabolismo cellulare arrivando, nei casi più gravi, ad ostacolare il corretto svolgimento di funzioni vitali.

“La contaminazione da metalli tradizionali c’è da tempo - evidenzia Ferrante - ma dagli ultimi studi e rapporti risulta essere meno importante. Oggi comincia a farsi strada la contaminazione da microparticelle metalliche. La differenza tra le due particelle è dimensionale: quando parliamo di contaminazione di metalli parliamo della presenza globale di metalli nelle derrate alimentari; nel caso di nano e micro-metalli indichiamo, invece, particelle di un diametro nell’ordine dei nanometri. Questa contaminazione si è verificata perché negli ultimi c’è stato un grande incremento di utilizzo sia in varie tecnologie ambientali che nella conservazione di varie derrate alimentari, ragion per cui queste nano particelle si diffondono e possono essere assorbite da vegetali e animali, finendo poi negli alimenti”.

Come spiega la docente Unict “va poi individuata una differenza importante per quanto riguarda la tipologia di metallo in analisi. Mentre i metalli pesanti sono ormai largamente conosciuti (cadmio, arsenico ecc.) i nano metalli sono per lo più quelli utilizzati in elettronica, a scopo cosmetico o per la conservazione e stabilizzazione dei prodotti. Essendo particelle molto piccole, vanno in circolo molto più facilmente delle particelle metalliche tradizionali, raggiungendo i vari organi e tessute generando processi di trasformazione e ossidazione dei tessuti umani. I nano metalli sono per lo più presenti nei prodotti che hanno un maggior contatto con il suolo e con le acque. Le carni sicuramente sono le più contaminate, in particolare i prodotti ittici”.

…microplastiche "sottotraccia"

A mettere a rischio il precario equilibrio della nostra salute alimentare, però, non vi sono soltanto i metalli bensì anche le microplastiche. La professoressa UniCt Margherita Ferrante, infatti, è infatti a capo di uno studio di eccellenza che, per la prima volta al mondo, mette sotto la lente del laboratorio le concentrazioni di microplastiche contenute nella parte edibile di alcuni dei frutti e delle verdure più consumati in Italia.

L’analisi del team etneo, a guida Ferrante, con i ricercatori Gea Oliveri Conti, Claudia Favara, Ilenia Nicolosi, Antonio Cristaldi, Maria Fiore e Pietro Zuccarello e Mohamed Banni del Laboratoire de Biochimie et Toxicologie Environnementale di Sousse in Tunisia è stata pubblicata sull’importante rivista di settore Environmental Research (Elsevier).

Come evidenzia la direttrice della ricerca “Il nostro studio sulla frutta e la verdura, è il primo al mondo che mette in evidenza plastiche in prodotti vegetali. Adesso stiamo studiando le cellule umane e stiamo notando non solo l’effetto infiammatorio delle particelle di microplastiche, ma anche un cambiamento nell’indirizzo della differenziazione. Cellule che dovrebbero differenziarsi in un certo senso cambiano il loro destino. Pensiamo a cosa avviene ad un bambino intrauterino se le sue cellule al posto di diventare cellule cartilaginee diventano adipose. Si cambia completamente la formazione dell’individuo: malformazioni”.

Ma non solo. “Questi nostri studi stanno aprendo scenari importanti – continua Ferrante - perché stanno dimostrando per la prima volta che queste particelle sono a tutti gli effetti molto pericolose. Per quanto riguarda le nano e micro plastiche troviamo concentrazioni significative nei vegetali e nei pesci. Abbiamo visto che queste concentrazioni fanno un danno non solo alle persone che ingeriscono questi alimenti ma anche agli animali: i pesci esposti diventano ciechi e sono così incapaci di alimentarsi”.

Microplastiche nelle urine umane

A conferma di queste risultanze, recentemente un altro studio italiano - nato dalla collaborazione tra il gruppo di ricerca coordinato da Oriana Motta del Dipartimento di Medicina dell'Università di Salerno, il coordinatore del progetto EcoFoodFertility, Luigi Montano, uroandrologo dell’Asl di Salerno e presidente della Società italiana della riproduzione umana (Siru), e il gruppo coordinato da Elisabetta Giorgini del Dipartimento di Scienze della vita e dell’ambiente dell'Università Politecnica delle Marche - ha trovato per la prima volta microplastiche nelle urine umane. “L’origine di questi frammenti potrebbe essere varia e può comprendere cosmetici, detergenti, dentifrici, creme per il viso e il corpo, adesivi, bevande, cibi o anche particelle aerodisperse nell’ambiente, per cui l’ingresso nell’organismo umano può avvenire attraverso l'alimentazione per via gastrointestinale, l’apparato respiratorio, ma anche attraverso la via cutanea”, spiegano Oriana Motta ed Elisabetta Giorgini.

Bandiera rossa anche per l'import

Appare evidente, dunque, che è fondamentale tutelare la sicurezza alimentare. A sollevare la questione proprio di recente è stata la Coldiretti la quale, in occasione del Forum internazionale dell'agricoltura e dell'alimentazione a Roma, avvenuta a novembre, ha riportato alla ribalta i dati del Rapporto annuale della Commissione europea sul Sistema di allerta rapido Ue (Rasff). Quest’ultimo è un organismo previsto dal regolamento comunitario e fondato nel 2002 che consente di condividere le informazioni relative a gravi rischi per la salute derivanti da alimenti e mangimi. L'allerta rapido viene messo in atto nei casi in cui si ravvisi in un alimento un grave rischio per il consumatore che comporti un intervento immediato sul territorio da parte delle strutture sanitarie.

Dai dati emersi dal rapporto, negli ultimi dodici mesi in Italia vi sono state 389 notifiche di allarme, ovvero più di una al giorno, con un incremento rispetto all'anno precedente del 31%. In particolare la Coldiretti ha stilato una lista degli alimenti più pericolosi presenti nelle nostre cucine e provenienti anche da altri paesi e, nel dettaglio, ai primi posti c'è la carne di pollo low cost proveniente dalla Polonia, agrumi e peperoni della Turchia, pepe nero brasiliano, semi di sesamo dall'India ma anche le arance provenienti dall'Egitto.

Le leggi che ci difendono

Appare dunque evidente che la questione dei veleni nei nostri piatti non sia semplice fantascienza ma una realtà concreta con la quale ci tocca fare i conti. Ma a che punto si trovano le legislazione in materia di monitoraggio e controllo di sostanze contaminanti negli alimenti? Proprio sei mesi fa, infatti, la Commissione Europea ha presentato la proposta di riforma del regolamento sui pesticidi, conosciuta come “Sustainable Use of pesticides Regulation” (Sur), che pone per gli agricoltori europei l’ambizioso obiettivo di dimezzare l’utilizzo dei pesticidi in agricoltura entro il 2030. Nel caso dell’Italia, addirittura, la riduzione si attesta al 62%, e sarà necessario vietare il loro utilizzo, entro la stessa data, nelle aree sensibili.

Per quanto riguarda i metalli pesanti, invece, essi vengono monitorati da autorità internazionali come l'Organizzazione mondiale della Sanità e l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa), che valuta i rischi derivanti alla salute umana dalla loro assunzione attraverso la dieta. La normativa comunitaria di riferimento è il regolamento Ce 1881/2006 che, con le sue successive modifiche e integrazioni, stabilisce i valori massimi di alcuni contaminanti nei prodotti alimentari, prevedono limiti legali per cadmio, piombo, mercurio, arsenico inorganico e stagno inorganico in alcune tipologie di alimenti.

Un monitoraggio costante e obiettivi di riduzione di contaminazione che ci fanno ben sperare per il futuro della nostra salute alimentare, messa seriamente a rischio negli ultimi anni. Ora la vera grande sfida per l’Europa e, soprattutto, per l’Italia sarà quella di rispondere alle indicazioni comunitarie per un’agricoltura e un allevamento sempre più a misura di ambiente e di uomo e, di contro, sempre meno d’industria.

Margherita Ferrante, direttrice Laboratorio Igiene ambientale e alimenti dell'Unict

Come tutelarsi contro gli alimenti non sicuri

“Bisogna evitare di comprare prodotti turchi, egiziani, cinesi o indiani perché in questi Paesi si controlla meno rispetto al controllo stringente che c’è in Europa”. Non usa mezzi termini la direttrice del laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell’Università di Catania, Margherita Ferrante. Ed è da aggiungere che a volte anche dai prodotti provenienti dai paesi Ue bisogna guardarsi. È il caso del pollo low cost polacco che nell’ultimo rapporto del Rasff del 2022 ha ricevuto numerose notifiche di allarme (circa l’8% delle 389 provenienti dall’Italia) e in cui si è trovata, tra le altre cose, la salmonella.

In ogni caso, va detto che in genere i prodotti alimentari provenienti dall’Unione europea devono rispettare una serie di stringenti normative legate al pacchetto igiene che ne determina una maggiore sicurezza rispetto ai cibi provenienti da zone extra Ue. Per questo bisogna avere, secondo Ferrante, “la consapevolezza che viviamo in un paese privilegiato, in cui si sorveglia, e nelle nostre scelte dobbiamo favorire i prodotti da noi monitorati e controllati”. Scegliere consapevolmente cibi di qualità, tuttavia, non è sempre possibile in un periodo in cui l’inflazione e la perdita del potere di acquisto delle famiglie crescono vertiginosamente. Basti pensare che le importazioni di carne di pollo dalla Polonia (proprio quella in cui è stata trovata la Salmonella) ad agosto scorso, periodo in cui l’inflazione non era così elevata come ora, hanno toccato quota 15mila tonnellate, segnando addirittura un raddoppio rispetto all’anno precedente. Le famiglie hanno sempre meno soldi e risparmiano sul cibo affidandosi a prodotti che costano di meno ma che sono potenzialmente contaminati.

E pensare che, come conferma la Ferrante, “a volte buttiamo alimenti sicuri che possono essere ancora consumati”. Un paradosso, lo spreco alimentare riguarda maggiormente le fasce più benestanti della popolazione che comprano cibi di qualità, mentre le famiglie che faticano ad arrivare a fine mese si mangiano microplastiche, nanometalli, pesticidi e quant’altro. Così, “il contrasto agli sprechi alimentari” diventa un momento importante sia “per dare sostegno alle famiglie bisognose” sia per “non buttare i cibi sicuri prodotti in Ue e farli circolare al massimo per utilizzarli completamente”.

La sicurezza dei cibi Ue, tuttavia, potrebbe essere minacciata dall’entrata in vigore di un trattato, che attualmente circola solo in forma di bozza, tra l’Unione europea e i paesi dell’America meridionale (i cosiddetti paesi Mercosur). Un accordo commerciale che non riguarda solo il mercato agroalimentare ma coinvolge, fra i tanti, anche quelli farmaceutico e dell’abbigliamento. Secondo la Coldiretti, il trattato Ue-Mercosur “aprirebbe le porte a prodotti che utilizzano più di duecento pesticidi non autorizzati” dall’Ue. “Questo accordo nasce prima di tutto per una tutela commerciale dell’Unione europea – spiega Ferrante -. È indubbio che ci potrebbe essere una potenziale minaccia. Ma è indubbio anche che l’accordo, prima di entrare in vigore deve passare diversi filtri che non sono solo i paesi del Sud America, ma soprattutto gli stati membri dell’Ue e il parlamento Ue che dovranno discuterne i termini. Parlando di agroalimentare non si potrà non pretendere che la circolazione libera da questi Paesi all’Ue è un potenziale pericolo. Questi prodotti dovrebbero rispettare dei criteri minimi di sicurezza che sono importanti per noi”.

Gabriele D’Amico e Elettra Vitale

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