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Mafia, Messina Denaro ancora ai vertici di Cosa nostra

Mafia, Messina Denaro ancora ai vertici di Cosa nostra

Mafia, Messina Denaro ancora ai vertici di Cosa nostra

Dall'inchiesta di oggi sui clan di Agrigento e Trapani (leggi qui) è emerso che Matteo Messina Denaro, capomafia trapanese latitante da 28 anni, è ancora riconosciuto come l'unico boss cui spettano le decisioni su investiture o destituzioni dei vertici di Cosa nostra. Anche Messina Denaro è destinatario del provvedimento di fermo, emesso per ventitré persone, ma eseguito solo nei confronti di ventidue, visto che il padrino trapanese resta latitante. Il ruolo del boss di Castelvetrano viene fuori nella vicenda relativa al tentativo di alcuni uomini d'onore di esautorare un boss dalla guida del mandamento di Canicattì. Dall'indagine emerge che per di realizzare il loro progetto i mafiosi avevano bisogno del beneplacito di Messina Denaro che continua, dunque, a decidere le sorti e gli equilibri di potere di Cosa nostra pur essendo da anni imprendibile. Clan siciliani e cosche Usa ancora in affari Dall'inchiesta è emerso inoltre che non sono mai cessati gli storici rapporti tra la mafia siciliana e Cosa nostra americana scoperti già negli anni '70 da Giovanni Falcone, il giudice ucciso a Capaci nel '92. Emissari statunitensi della "famiglia" dei Gambino di New York nei mesi scorsi sarebbero andati a Favara, nell'agrigentino, per proporre ai clan locali business comuni. Il messaggi tra i boss al 41 bis Dall'indagine è emerso inoltre che diversi capimafia, come il boss ergastolano agrigentino Giuseppe Falsone, sarebbero riusciti a parlare tra loro, a scambiarsi messaggi - nonostante fossero detenuti al carcere duro - e a far arrivare ordini all'esterno. Complici alcuni poliziotti In alcuni casi, secondo le indagini, grazie alla complicità di alcuni agenti di polizia penitenziaria addetti ai controlli dei carcerati al 41 bis, a volte riuscendo, per falle del sistema, a eludere la sorveglianza e a passare informazioni a gesti senza essere intercettati. In particolare, dall'indagine è emerso che un agente in servizio nel carcere di Agrigento, durante un colloquio telefonico tra il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ex capo della mafia agrigentina, e un'avvocata, fermata oggi con l'accusa di mafia, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell'incontro con Falsone. Il boss, inoltre, sarebbe riuscito a inviare messaggi all' esterno, perché in alcuni istituti di pena non viene controllata la corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e i propri difensori. Messaggi attraverso l'avvocato Sfruttando questo limite nella vigilanza Falsone, attraverso il suo avvocato, sarebbe riuscito a fare uscire dal carcere i messaggi che, in prima battuta, essendo destinati a terzi, erano stati censurati dal magistrato di sorveglianza. L'indagine ha accertato inoltre che boss di Agrigento, Trapani e Gela, tutti detenuti nel carcere di Novara, sfruttando inefficienze nei controlli dialogavano tra loro riuscendo anche a saldare alleanze tra cosche di territori diversi. Durante l'inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polzia penitenziaria in servizio ad Agrigento all'avvocata indagata: i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per mafia. L'agente avrebbe informato la donna che il suo cliente l'indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.

redazione

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